Con l’eliminazione di stanotte i Golden State Warriors salutano la stagione e (forse) anche Klay Thompson
Come prevedibile questa notte si è conclusa la stagione dei Golden State Warriors, una delle più travagliate di sempre nella baia. Tra mosse discutibili sul mercato, la totale immobilità alla dead-line, rotazioni stravolte di continuo e rendimenti molto inferiori alle aspettative, a San Francisco sarà tempo di archiviare velocemente il tutto e pensare alle mosse da compiere in off-season, che quest’anno si preannuncia davvero bollente.
La sensazione è che quella macchina da gioco incredibile che ha dominato i palcoscenici della lega negli ultimi 10 anni si sia ormai rotta, e che sarebbe meglio per tutti ricominciare da capo ed intraprendere altre strade. Eh si, perché tutte le cose, anche le più belle, prima o poi giungono al termine. L’eccesso di riconoscenza non è mai un bene nello sport, specie in una lega così mutevole come la NBA di oggi, e i Warriors ne hanno pagato le amare conseguenze.
Dopo la cocente eliminazione dello scorso anno contro i Lakers, nella baia si è riprovato il tutto per tutto, convinti che ancora si potesse lottare per i palcoscenici più importanti. Draymond Green rinnovato per 4 anni (con tutte le conseguenze del caso, adesso non ha valore di mercato), stessa cosa Andrew Wiggins e Kevon Looney.
Ma se il primo, nelle suo mondo di follie, ha ancora dimostrato di poter essere il perno difensivo di una squadra in grave difficoltà sotto quel punto, gli altri due sono risultati solamente sbiadite controfigure dei giocatori che conoscevamo. Wiggins in particolare, che nel 2022 era diventato All-Star ed aveva contribuito in maniera fulgida alla vittoria dell’anello, quest’anno ha confermato ancora una volta il suo perenne ruolo di eterno incompiuto, crollando in maniera tragica nelle percentuali al tiro, soprattutto dall’arco.
Altra scelta infelice è stata quella di portare dentro Chris Paul. Al di là del fatto che in questo modo i Dubs sono riusciti a sbarazzarsi del contrattone di Jordan Poole, ma chi pensava che con CP3 le cose cambiassero in positivo è rimasto prontamente deluso. Il prodotto di Wake Forest, da sempre abituato a giocare a ritmi blandi, si è trovato subito in difficoltà in un contesto dove il phase altissimo ha sempre giocato un ruolo da protagonista. L’ennesimo infortunio alla mano ha poi messo fuori dai giochi definitivamente l’ex Clippers, che concluderà la sua leggendaria carriera senza aver mai vinto un titolo.
I giovani, che pure sono tanti ed interessanti, sono apparsi fuori contesto e costretti a giocare quasi più per necessità che per il reale interesse della franchigia a svilupparli. Difatti, dopo tre anni, non sappiamo ancora quale sia il reale valore di Jonathan Kuminga e Moses Moody, che pure, con tutti i loro limiti, hanno disputato un’incoraggiante stagione.
Gran parte della colpa è a mio avviso pure di Steve Kerr, che non ha saputo gestire le rotazioni, e non è mai stato in grado di mandare in campo una squadra unita e realmente competitiva. Stanotte contro Sacramento, la tragica scelta di schierare il povero Trayce Jackson-Davis (che pure intendiamoci, ha disputato un’ottima annata ma ha dei seri limiti atletici) titolare è stato uno dei motivi della disfatta. Con tutto il bene, ma credo che pure il buon Kerr abbia fatto il suo tempo.
Infine, un focus su Klay Thompson, da tutti additato come il vero responsabile del declino di Golden State. Al di là di quello che è successo stanotte, che a me personalmente fa piangere il cuore, era evidente da tempo che il numero 11 non poteva più tornare ad essere quello pre infortunio. Il karma nella baia ha fatto il suo corso lo sappiamo, impedendo la vittoria di almeno altri due titoli. Però il guaio è stato tenerlo e porgergli tutta questa fiducia nonostante gli evidenti limiti. Difatti Kerr per larghi tratti della stagione lo ha rilegato in panchina preferendogli il rookie Podziemski.
Sappiamo tutti che Thompson nel suo prime era un giocatore mostruoso, uno dei migliori tiratori della lega ed anche un difensore perimetrale di livello eccelso. Nessuno negherà mai il suo determinante contributo nella dinastia invincibile della baia. Ma, quando si è capito che quel tipo di giocatore non poteva più tornare, anche se in maniera molto dolorosa, bisognava avere il coraggio di dirgli addio. Adesso l’ex Washington State sarà free agent, e potrebbe lasciare seriamente San Francisco dopo più di un decennio di successi. La fine dei Big 3 di Golden State sembra ormai esser sempre più vicina.
In questa off-season qualcosa di sicuro cambierà nella baia, e forse la dirigenza si accorgerà, anche se colpevolmente in ritardo, di dover necessariamente ripartire da capo. Steph Curry, che a 36 anni gioca ancora a livelli fenomenali e si appresterà a disputare in estate la sua ultima Olimpiade, rimarrà, e potrebbe fare da chioccia ai tanti giovani a roster. Solo il tempo ci darà notizie del futuro di Golden State, che in questi 10 anni ha rivoluzionato non solo la pallacanestro moderna, raggiungendo livelli di dominio mai visti, ma ha costruito da zero una delle dinastie più memorabili e durature, destinata a rimanere per sempre nella storia di questo sport.