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The Revolution: Kevin Garnett spazzò via tutte le buone abitudini della NBA

di Redazione Pianetabasket.com

(di FRANCESCO RIVANO). “Che provoca un cambiamento radicale, una trasformazione in un qualsiasi campo dell’agire umano”. Da buon boomer quale sono al digitale preferisco il cartaceo e a volte mi capita di prendere il vocabolario, sfogliarlo, cercare il significato di qualche parola e legarla a qualche ricordo. Questa volta la parola che mi ha incuriosito è stata “rivoluzione” e sono riaffiorati quegli avvenimenti storici che in effetti hanno generato un cambiamento assoluto nella vita di chi li ha vissuti e dei loro posteri. Penso alla rivoluzione Francese e al celeberrimo “Liberté, Egalité, Fraternité”; penso alla rivoluzione industriale e alla capacità dell’uomo di rendere sempre più efficace ed efficiente sia la produzione che l’organizzazione del lavoro; penso alla rivoluzione copernicana e alla teoria dell’eliocentrismo che ribaltò l’idea della Terra al centro dell’Universo; penso alla rivoluzione americana e al 4 Luglio del 1776, quando le tredici colonie americane diedero vita ai primi tumulti che sfociarono nel  1783 con l’indipendenza degli Stati Uniti D’America.

Ma tutti questi pensieri vengono spazzati via da una connection piuttosto forte tra la parola rivoluzione e la palla a spicchi ed immediatamente vengo catapultato a  Greenville, nel South Carolina, pronto a ripercorrere la storia di chi, assieme a Kobe e Tim, decise di lasciare la Lega nel 2016: la storia di Kevin Maurice Garnett.  So molto bene che per poter narrare le gesta di KG sarebbero necessarie quella spocchia, quel fare da sceriffo, quella abuso di trash talking che hanno accompagnato la carriera di “The Big Ticket” dall’inizio alla fine, ma non lo farò, vi racconterò di Kevin con fare rispettoso e con atteggiamento ossequioso in onore di quella rivoluzione, “The Revolution”, che non avete mai studiato nei libri di scuola, ma della quale avete goduto attraverso il tubo catodico e le notti insonni. “Ho paura solo di Dio e di Mamma”, e  forse la paura di mamma era molto più forte rispetto a quella di Nostro Signore. Ma nonostante la signora Shirley non vedesse di buon occhio tutto quel tempo trascorso con la palla in mano, per Kevin il basket era come una droga, un’ossessione e poco importava se Coach Fisher lo sfiniva con i suoi allenamenti incessanti nella palestra della Mauldin High School; al campetto c’era sempre qualcuno  per continuare a soddisfare quella voglia infinita di Basket che lo divorava.  Per Kevin il basket era una tenia, un verme solitario, un parassita da sfamare in continuazione, senza sosta per non deperire nelle difficoltà della vita di tutti i giorni. E Kevin il basket lo nutriva incessantemente e il basket nutriva lui, facendolo diventare ogni giorno più forte, ogni giorno più dominante, ogni giorno più rivoluzionario. I quattro anni trascorsi alla Mauldin sono impressionanti dal punto di vista tecnico; Kevin domina, a quei livelli è incontrastabile  e nell’anno da junior tocca cifre assurde: 28,5 punti, 18,5 rimbalzi e 7 stoppate. Ma al quarto anno incorre in guai di natura giudiziaria di Iversoniana memoria che spingono Shirley a fargli cambiare aria e spedirlo alla Farragut Accademy.

Se non sapeste dove si trova la Farragut, vista la scelta di Shirley, verrebbe facile pensare che si trovi nel quartiere più agiato della città più sicura degli USA. E invece no, parliamo di Chicago, praticamente il classico salto dalla padella alla brace se confrontiamo Greenville con la città del vento in termini di avvenimenti criminosi. Ma io vi sto parlando di basket e non di aule giudiziarie e la scelta di mamma Shirley fa la fortuna di Kevin. Il suo talento, la sua durezza mentale e la sua capacità di adattamento lo portano a recitare un ruolo da protagonista nella sua stagione da senior tanto da essere eletto Mr. Basketball nell’Illinois e giocatore dell’anno per USA Today. Nonostante le sirene degli atenei più prestigiosi del College Basket, tra le quali la più insistente è quella di Michigan, KG, dopo aver deriso gli avversari al Mc Donald’s All American Game del 1995, sceglie di saltare a piè pari l’università e di approdare nel mondo della NBA come giocatore più giovane della storia ad aver calcato tale scenario;  alla quinta scelta, subito dopo una altro fenomeno assoluto, Rasheed Wallace, David Stern pronuncia il nome del nativo di Greenville, selezionato dai Minnesota Timberwolves. Ecco, vi ho accompagnato fin qui, fino al punto che penso ogni singolo amante della NBA conosca; la carriera NBA di “The Revolution”. Una rivoluzione tecnico-tattica per la capacità di anticipare i tempi del lungo mobile e versatile; una rivoluzione umorale che porta al lock out per l’assurdità del contratto da 126 milioni firmato nel 1997; una rivoluzione politica per l’introduzione della rookie scale; una rivoluzione sentimentale per i tifosi dei Timberwolves  abituati ad avere come traguardo massimo le trenta vittorie stagionali.

Continuo a sfogliare il vocabolario e alla lettera O vengo attratto dalla parola il cui significato esprime il concetto chiave degli anni di Kevin a Minnesota, onnipotenza: “Il potere di fare tutto, senza limiti”. Dall’avvento del compianto Flip Saunders un crescendo rossiniano per 12 stagioni vissute da assoluto protagonista. Dapprima insieme a Steph Marbury, al fianco del quale ha regalato i primi playoffs alla franchigia e successivamente con Latrell Sprewell e Sam Cassel con i quali ha sfiorato le Finals. Stagioni a cifre perentorie in tutte le voci statistiche con l’apice della stagione 2004 da MVP di una lega di cui sembrava essere il padrone, ma dalla quale è stato tagliato fuori a un passo dalla cima più alta da chi, in Minnesota, aveva avuto i natali: i Lakers. 24,2 punti, 13,9 rimbalzi, 5 assist, 2,2 stoppate e 1,5 palle recuperate a partita nella sua miglior stagione. Ma come si fa a non pensare all’anello con certe cifre, come si fa a non voler competere ogni anno per poter finalmente alzare il Larry O’Brien Trophy e come si fa a dire di no alla proposta della squadra più titolata della storia del basket statunitense. Ci sono almeno due validi motivi per non rifiutare l’offerta dei Celtics: l’esperienza di The Truth e le capacità balistiche di Jesus Shuttlesworth.  

Nel 2007 dopo 12 anni passati una spanna sopra qualsiasi altro giocatore passato da “Mill City”, KG fa le valigie e si trasferisce nella Eastern Conference ai Boston Celtics.  Avete presente quando da piccolini giocavate a scambiarvi le figurine con gli amici? C’era sempre “l’affarista” che per scambiare la figurina di un giocatore “alla Baggio” ne chiedeva almeno dieci in cambio. Così hanno fatto gli Wolves. Ben 7 giocatori in cambio di KG nello scambio più numeroso della storia della NBA che riguardasse un singolo atleta. Parafrasando Giulio Cesare, che qualche spunto agli storici nella sua vita lo ha lasciato, Garnett “Venne, Vide e Vinse” al primo tentativo, regalando nel 2008 il primo titolo del millennio, a spese dei soliti Lakers, ai Boston Celtics, a bocca asciutta dal 1986. In maglia Celtics, Kevin si nutre dall’inizio alla fine dell’aura prodotta da Bill Russell, vuole incarnare il suo spirito, la sua fame, la sua voglia di vittoria e di fronte a lui, con la maglia che fu sua, non vuole sfigurare. Rimane fino al 2013 in maglia Boston, lottando e sudando quella casacca in pieno spirito Celtics. Riapproda alle Finals nel 2010, ma questa volta deve arrendersi alla vendetta del Black Mamba. Da lì in poi però l’incedere del tempo e il calo atletico lo portano a sviluppare in maniera eccessiva e fuori dalle righe, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’arte del trash talking. Un continuo parlare e discutere con avversari e arbitri, una radio continuamente accesa sulla frequenza della provocazione, che lo portano ai margini tecnici della Lega e a perdere il rispetto e l’appeal di molti tra addetti ai lavori e tifosi. Il ritorno a Minneapolis, dopo la parentesi Brooklyn lo rilancia.

Un homecoming gradito ai tifosi che, una volta tanto nello sport, danno un senso al significato di riconoscenza, omaggiando chi ha reso grande la franchigia del Minnesota con l’amore e il rispetto dovuto. Un ritorno amaro, non tanto dal lato sportivo nonostante il numero limitato di minuti, quanto dal lato meramente sentimentale. Tornato al Target Center per far da chioccia ai giovani talenti in maglia Wolves, viene travolto dalla prematura quanto repentina morte di Coach Flip. Quel “Forever in my hart” postato sui social a commento dell’immagine di lui seduto per terra dove era solito parcheggiare l’auto il coach che per primo ha creduto in lui, vale più di mille parole. “Kevin, non sei più rivoluzionario, non sei più “The Kid”, le gambe non sono più quelle di un tempo e la mente è stanca dopo aver affrontato 21 estenuanti stagioni nella NBA. È giunta la tua ora. È inutile andare avanti”. E Kevin da retta alla sua coscienza, sa che ha ragione e che è arrivato il momento di cedere il passo. E lo fa senza titubare, senza troppi proseliti, senza il farewell tour, senza gli squilli di tromba. Un semplice ringraziamento a chi lo ha sempre sostenuto e via, con quelle braccia immensamente lunghe, a tirar giù la saracinesca di una carriera memorabile di un giocatore che, di questo sport, ha scritto pagine importanti, innovative, oserei dire rivoluzionarie.  È giunta l’ora di riporre il mio vocabolario nello scaffale ma un’ultima parola attira il mio sguardo e il suo significato è il seguente: “esprime gratitudine  o ringraziamento”. Grazie Kevin.

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Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi giorni ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro. Francesco Rivano ha presentato il suo libro nella Club House della Dinamo Sassari.


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