.

Yes, in your house: ricordando il grande Dikembe Mutombo

di Redazione Pianetabasket.com

(di FRANCESCO RIVANO). “Chi muore tace, chi vive si da pace”. Recita così un ambiguo proverbio riferito alla morte. E di gente a tacere, nello Zaire, ne è stata messa anche troppa all’inizio del ventesimo secolo. A pensarci, con una pace interiore che una coscienza del genere non dovrebbe avere, è stato Leopoldo II, re del Belgio. Se ci fosse un Hall of Fame per la categoria “i più grandi sanguinari dell’umanità” il monarca belga ne sarebbe sicuramente membro, vantando al suo “attivo” almeno dieci milioni di vittime. Abilissimo nell’arte della schiavitù e della mutilazione fu in grado di lasciare in eredità a quella terra  non pochi strascichi nei rapporti tra popolazione indigena e popolazione coloniale. Nonostante l’indipendenza del 1960 e il tentativo invano di Patrice Lumumba di creare uno stato libero, antisecessionista e anticolonialista, lo Zaire, attualmente Repubblica Democratica del Congo,  può ritenersi una vera e propria santabarbara, un paese che ha vissuto tra spargimenti di sangue, rivoluzioni, corruzione e guerre civili sino ai giorni nostri.

E da pochi giorni questa terra piange un altro figlio, capace di abbattere le frontiere, di superare ostacoli che sembravano insormontabili e di far conoscere il suo nome a una fetta consistente della popolazione mondiale che ama lo sport. O per lo meno è riuscito a far conoscere una parte del suo nome. Eh sì perché non tutti sanno che il dito più sventolato della pallacanestro statunitense avesse un nome molto più impegnativo di quello conosciuto ai più. Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba Jean Jacques Wamutombo (ora riprendete fiato), nasce e cresce in un ambiente poco avvezzo allo sviluppo economico e sociale. Nonostante il padre sia laureato, cosa non da tutti nello Zaire del 1966, e abbia un posto statale, la vita non sorride al piccolo Dikembe, ma il miraggio di evadere da quel mondo pieno di insidie e povero di occasioni diventa ben presto una valida via da percorrere. A indicare la strada per raggiungere il sogno di una vita decente è un colosso proveniente dalla Nigeria che, negli anni dell’adolescenza di Dikembe, si afferma come icona dell’Africa nera, prima a livello collegiale e poi a livello professionistico in uno degli sport più popolari: il Basket. Dikembe e gli amici spesso si introducono clandestinamente all’interno dell’ambasciata americana nella quale trasmettono le partite dei Rockets per ammirare Hakeem Olajuwon. Immaginate la fantasia di un giovane ragazzo alle prese con una visione del mondo limitata alle sole strade polverose di Kinshasa, ex Leopoldville, che ammira il coraggio di un suo fratello africano. “Voglio essere anch’io come Hakeem, voglio anche io diventare famoso e ricco per ricoprire d’oro la mia famiglia.” Progetti, voli pindarici, sogni che solo l’ostinatezza e la volontà di chi veramente ha assaggiato la polvere può provare a trasformare in vita reale. E l’occasione si presenta: di certo il viaggio dall’Africa agli States non è minimamente paragonabile alla transoceanica con posto in stiva affrontata da Kunta Kinte nel capolavoro di Alex Haley, Radici, ma la destinazione è la medesima, e ad offrire alloggio a Dikembe non è una piantagione di cotone nella quale spaccarsi la schiena ma l’Università di Georgetown. Obiettivo? Diventare medico e ritornare a Kinshasa per aiutare i più bisognosi.

No va proprio tutto come da programma ma cosa importa, il destino ha in serbo qualcos’altro per il guerriero (significato di Mpolondo, terzo nome del giovane africano). Sono gli Hoyas di Georgetown a dare una borsa di studio a Dikembe e a intravedere una carriera cestistica di livello, è coach John Thompson che nota il kilometrico virgulto venuto dal sud del mondo e gli offre di far parte della squadra di basket dell’ateneo di Washington. Deke e la palla non diventano immediatamente amici; diciamo che alla prime uscite a mala pena avrebbe fatto bella figura nella partita che Aldo, Giovanni e Giacomo disputano contro i vigili urbani in piazza Mercanti a Milano in “Chiedimi se sono felice”. Ma la volontà e lo spirito di sacrificio non mancano e il ragazzo impara in fretta. La carriera universitaria è un crescendo. Dal primo anno all’anno da senior salgono notevolmente minuti e statistiche, la doppia doppia in punti e rimbalzi è una normale giornata in ufficio e gli scout NBA pongono particolare attenzione nei confronti del prospetto da Georgetown. È  il 1991 quando Dikembe Mutombo viene scelto alla 4 dai Denver Nuggets. Colorado e Kinshasa, cime montuose innevate e sole cocente, Stati Uniti d’America e Repubblica democratica del Congo: quanto di più lontano si possa immaginare. Ma è proprio la differenza abissale che ha la Mile-High City con la città natale di Dikembe a renderla il posto perfetto e il primo anno è incredibile, il migliore della carriera in punti, 16,6, poco meno di 13 rimbalzi e quasi 3 stoppate.

Avete mai sentito parlare di effetto NIMBY? Nimby è l’acronimo di “Not in my back yard”, e sta ad identificare un atteggiamento egoista da parte di chi, pur essendo d’accordo nel voler una determinata opera o miglioria di interesse sociale, voglia comunque che i potenziali effetti di questa non si ripercuotano su se stesso o nelle sue immediate vicinanze, insomma, non nel suo back yard. Mutombo a Denver crea qualcosa di affine all’effetto Nimby con fare impositivo e altruista, se ci si riferisce ai compagni di squadra, non di certo per gli avversari. ”Not in my House”, con tanto di sventolata di dito in faccia al malcapitato. Pensate a chi tenta di  presentarsi senza invito ad una festa di prim’ordine. Solo chi è abilissimo nell’arte dell’imbucata la può scampare. Gli altri? Respinti al mittente. Ritenta, sempre se hai coraggio, e difficilmente sarai più fortunato. Segnate molte crocette sotto la voce “stoppate” nel referto.  A Denver Mutombo si sente a casa e oltre a migliorare continuamente tutte le voci statistiche legate alla fase difensiva del gioco, partecipa a scrivere una pagina di storia della lega. Nel 1994 i Nuggets si qualificano ai playoffs per il rotto della cuffia, partono in tabellone con la numero 8 e a sfidarli c‘è la testa di serie numero 1: i Seattle Supersonics di Kemp e del “guanto” Gary Payton. Denver fa saltare il banco e batte Seattle 3 a 2. Caso che fa scuola; per la prima volta da quando esiste la NBA la numero 8 batte la numero 1 ai playoffs. Mutombo diventa l’emblema della difesa delle arene NBA. Anche ad Atlanta difende il ferro come fosse la casa dei suoi fratelli di Kinshasa, stoppa, intimida, raccoglie rimbalzi e la furia e l’agonismo con cui interpreta il ruolo lo innalzano al top della lega. Viene eletto miglior difensore della Lega per 4 anni tra il 1995 e il 2001 e diventa una presenza abitudinaria all’All Star Game. Indimenticabile quello di Washington nel 2001, nel quale, con i suoi 22 rimbalzi, strappa la vittoria all’Ovest in rimonta dando una mano non di poco conto a Steph Murbury e Allen Iverson, invasati ed insensati, in quella che è una delle partita delle stelle più avvincente dell’era moderna. Quello è l’anno che più avvicina Deke al sogno di arrivare al titolo NBA; raggiunge le finali con i Sixers, ai quali si  aggrega in corsa a febbraio, ma nonostante la memorabile gara 1 di Iverson & Co. soccombe allo strapotere Lakers.  La carriera del lungagnone da Kinshasa sembra dover iniziare la parabola discendente dopo il picco raggiunto nel 2001 ma Deke ha ancora tanto da dire e da dare.

Se avete mai preso in mano un libro di Wilbur Smith potrete comprendere senza affanni il senso del ritmo di vita africano. Gli africani vivono seguendo i ritmi della natura, non hanno fretta, non si preoccupano del tempo che scorre; c’è il tempo per fare qualsiasi cosa e in questo Mutombo è un maestro. Deke dal 2002 al 2009 cambia tre casacche. Quella dei Nets, all’epoca ancora confinati a East Rutherford, con la quale raggiunge le Finals scontrandosi e perdendo contro le torri gemelle Duncan e Robinson; quella dei Knicks senza lasciare segni degni di nota e quella di Houston. A Houston viene firmato per fare da chioccia a Yao Ming, ma gli innumerevoli infortuni del centro cinese spingono Deke agli straordinari. Raggiunge sistematicamente i playoffs, sola eccezione il 2006, senza però mai fare troppa strada. Nel 2008 alla veneranda età di 42 anni, raggiunge statistiche impensabili per un veterano e nel 2009, dopo un infortunio al ginocchio, decide di lasciare il basket giocato abbandonando l’idea di raggiungere il canguro Kevin Willis (fermatosi a 44 anni) nel lodevole primato di giocatore più anziano ad aver militato nella NBA. Calmi ragazzi, so cosa state pensando, ma sul passaporto di Mutombo c’è scritto 25 Giugno 1966 sotto la voce “date of birth”, quindi ogni teoria che sostiene che Dikembe abbia avuto più dei 18 anni che ha dichiarato alle autorità al momento di lasciare il suo paese di origine rimane un’ipotesi non verificabile. Mutombo chiude la sua carriera al secondo posto nella classifica all time degli stoppatori NBA dietro a quello che è stato il suo idolo e il suo punto fermo:  Hakeem “the Dream” Olajuwon.

“Finisce qui la storia fra Dikembe Mutombo e la notorietà” penserete voi e invece non è così. Deke fuori dalle Arene NBA è diventato ancora più incisivo e decisivo. Lo sanno bene tutti quei pazienti che grazie a lui hanno avuto l’opportunità di curarsi nell’ospedale di Kinshasa che lui stesso ha permesso di realizzare; lo sanno bene tutti quei ragazzi ai quali ha insegnato il valore umanitario dello sport in giro per l’Africa; lo sa bene Adam Silver che lo ha ricordato nel ruolo di Ambasciatore della NBA e definito “più grande della vita”. Il suo sorriso, il suo ditone e la sua voce inconfondibile sono stati spenti da un male incurabile a soli 58 anni e tutto il mondo della pallacanestro lo piange. Chi muore tace… è vero, ma solo in parte, perché chi si è fatto ascoltare con tanto vigore continuerà a parlare e a farsi ascoltare anche dopo la vita e chi resta si da pace, consapevole che dagli insegnamenti di persone dello spessore di Dikembe Mutombo c’è solo da trarne giovamento per far si che la vita diventi più semplice da affrontare a prescindere dai problemi che ti mette davanti.
------------------------------------------------------------------------------------------

Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi mesi ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.


Altre notizie
PUBBLICITÀ