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"Gigio On Tour", il blog di Luigi Gresta #4: la vecchia Legadue

di Alessandro Palermo

In passato, la seconda divisione italiana - che si fosse chiamata A2 o Legadue - ha sempre rappresentato l'habitat ideale per far crescere giocatori italiani, ma anche per scoprire nuovi talenti oltreoceano. Ricordo ancora come il campionato di Legadue 2003-2004, nell’anno in cui debuttai come head coach, fosse pieno di ottimi giocatori, in grado di regalare tante soddisfazioni agli appassionati di basket italiani e non. Cito solo alcuni nomi in una lista che non pretende assolutamente di essere esaustiva: James Singleton, Mason Rocca, Brett Blizzard, Preston Shumper, Kiwane Garris, Drew Nicholas, Terrell McIntyre e molti altri giovani (al tempo) campioni a stelle e strisce; ma anche italiani dal futuro che sarebbe divenuto glorioso come Marco Mordente, Valerio Spinelli, Angelo Gigli… La lista potrebbe continuare a lungo. La seconda lega italiana era il campionato perfetto dove pescare giocatori pronti a compiere il salto di qualità. Se un americano avesse ben figurato in Legadue, il suo successo al piano di sopra sarebbe stato scontato. In questo momento, possiamo dire la stessa cosa? Siamo certi che chi primeggia in A2 sicuramente potrà essere protagonista anche in Serie A? Assolutamente no.

La mia riflessione vorrebbe circoscriversi al mercato degli stranieri. Perché non arrivano più in Italia giovani giocatori stranieri capaci come accadeva un tempo? Perché se un giocatore primeggia in A2, l’anno seguente fa spesso fatica se chiamato in Serie A? Spesso mi pongo queste domande, così come spesso mi vengono poste. Cerco di dare una risposta in base alla mia esperienza, anche se non ho la certezza che il mio pensiero possa essere completamente corretto, tuttavia da esso potrebbe nascere uno spunto di discussione costruttiva.


​LA TECNOLOGIA
Innanzitutto, se da un lato la tecnologia ha facilitato il reperimento di filmati e notizie di ogni genere, relativo ad ogni atleta del globo, dall’altro ha appiattito il processo decisionale del reclutamento degli atleti stessi. Ho avuto la fortuna di non scegliere mai i giocatori unicamente dai filmati ed ancor meno dallo studio delle statistiche, ma filmati e statistiche mi sono sempre stati di ausilio nel valutare atleti sempre visti dal vivo e non solo in contesti specifici e particolari come Summer Leagues o Camp Pre Draft. Il buon Alfiero Latini, che negli anni '90/'00 è stato proprietario dell'Aurora Jesi marchiata SICC, con lungimiranza pretendeva dal sottoscritto che setacciassi college e minors americane alla ricerca di giocatori che in un futuro più o meno prossimo facessero al caso della sua squadra.
 

UN INVESTIMENTO INTELLIGENTE
Ricoprivo il ruolo di head coach ma per me non c’erano pause di campionato che non mi fosse chiesto di andare a vedere qualche partita dal vivo, incontrando i giocatori di persona, portandoli a cena per comprendere le loro caratteristiche non solo tecniche ma anche caratteriali. Durante le vacanze di Natale lasciavo la squadra al vice allenatore per cercare giocatori per la stagione successiva, o che potessero essere utili in caso di infortunio come quando dovemmo sostituire Trent Whiting con DeSean Hadley per la rottura del tendine del nostro scorer mormone. Lo facemmo a tempo record alla vigilia di un play off esaltante che ci regalò la promozione in Serie A ai danni delle "Vu" Nere. Il signor Latini aveva capito che spendere 8-10 mila euro per dedicarsi ogni anno allo scouting, con viaggi mirati e quant'altro, ci permetteva di indovinare il più delle volte degli ottimi giocatori, spendendo molto ma molto meno. Ovvio, si andava in contro anche a degli sbagli, ma sicuramente la percentuale di incappare in errori gravi era molto bassa.
 

INFORMAZIONI TOP SECRET
​Durante i viaggi attraverso realtà interessanti di college, attraverso le minors come la NBDL (attuale D-League) o leghe purtroppo scomparse come la CBA e la IBL ebbi l’occasione di vedere all’opera i giocatori nel loro contesto abituale; a volte viaggiavo con le squadre stesse, ero ospitato a casa degli allenatori, alcuni dei quali diventati head coach NBA in seguito. Quei viaggi in cui dominava la solitudine (ero solo o quasi a visitare certi palazzetti), permettevano di conoscere gli atleti nella loro quotidianità. Le informazioni ricevute dai colleghi allenatori riducevano di molto le incognite. Entravo nei loro uffici o nei loro salotti, potevo guardare centinaia di VHS con partite che all’epoca era molto più complesso reperire. Ai giorni d’oggi è sufficiente connettersi su qualsiasi piattaforma che è possibile scaricarsi facilmente i video che si desidera. Questi viaggi che in pochi facevamo permettevano di raccogliere informazioni che gelosamente mi conservavo creando un vantaggio competitivo al momento della selezione dei giocatori stessi. La mancanza di tecnologia, in altri termini, imponeva un’analisi sul campo e non a distanza che per coloro che possedevano quattro spiccioli da investire, regalava vantaggi evidenti. Ora tutti possono sapere di tutti attraverso servizi forniti da sistemi di scouting specifici, o anche dalla semplice ricerca individuale su internet. Ciò permette una conoscenza diffusa più elevata. La ricerca sul territorio descritta in precedenza agevola sicuramente un livello di analisi più appropriato, ma il gap rispetto alla conoscenza diffusa non risulta essere più tale da giustificare l’investimento. In altri termini, un tempo se non si viaggiava in luoghi tetri e squallidi come i palazzetti CBA o IBL, o attraverso college sperduti (dove però poteva esserci una pepita come Singleton) la conoscenza dei dirigenti e coach preposti alla scelta dei giocatori era bassissima, se non minima (quantifichiamola in un valore relativo: 2) mentre le informazioni dei pochi che viaggiavano era massima (diciamo 10). Oggi la tecnologia per chi non viaggia porta comunque a un livello di conoscenza buona (diciamo 7). Il vantaggio competitivo per chi "scoutizza" sul campo e non dalla scrivania non è più elevato, di conseguenza, come un tempo. Ecco perché nessuno gira più per le minors (e non sto parlando della semplice partecipazione allo showcase D-League) ed ecco perché si sbaglia molto di più.
 

LIVELLO BASSO
Altro fattore che a mio parere non prepara a dovere i talenti di A2 al salto di livello è la pochezza tecnica che il campionato cadetto ci regala. L’ho scritto sopra: in Legadue hanno giocato fior fiori di giocatori italiani che si distribuivano su 16 squadre e che dovevano lottare con avversari di elevato livello. Ogni squadra contava 3 stranieri quindi la competizione interna cresceva, ma anche l’avversario imponeva standard qualitativi maggiori. Ora, dato per identico il talento dei giocatori italiani (cosa che non è, purtroppo), lo stesso talento lo si vede diluito in 32 squadre, ben 16 in più di allora, in roster dove gli stranieri sono solo due. Ne consegue che gli stranieri di A2 devono produrre molto di più di quanto dovevano fare un tempo. Lo straniero gregario in A2 non ha più modo di esistere. La A2 non forma il giocatore al salto di livello in Serie A perché dove il giovane atleta in A2 deve provare a fare pentole e coperchi contro avversari spesso di scarso valore, in Serie A deve stravolgere il modo di stare in campo in funzione della maggiore fisicità degli avversari e del maggior talento dei propri compagni di squadra; lo stesso “egoismo” non si addice nella categoria sopra. Ecco perché chi ha fatto bene in A2 spesso fatica in Serie A. Ciò non accadeva affatto nella vecchia Legadue.

 

Luigi Gresta,
Blog a cura di Alessandro Palermo

 


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