4 Novembre nel ricordo di Giancarlo Primo, maestro di vita e di difesa
(Elena Paschi) - C'' era una battuta, tra i giornalisti di basket, per parlare di Giancarlo Primo. Era l' espressione rituale con la quale l' ex c.t. azzurro, cavaliere della Repubblica e stella d' oro del Coni per meriti sportivi, inquadrava gli avversari da affrontare: «Che cosa volete che vi dica? So' alti, so' grossi e saltano pure come dannati». Per tutti era così. Lungi dal pensare che non avesse molte idee o differenti metodi per esprimersi, ora che il «professore» ci ha lasciatoci viene da dire che la frase era una sintesi perfetta: racchiudeva infatti il Primo gentiluomo, che usava sempre parole misurate e aveva il senso del rispetto altrui, e il Primo allenatore, teorico del concetto che le grandi imprese nascono difendendo strenuamente. «Continuo a pensare che a basket si vinca facendo segnare un canestro in meno a chi ti sta di fronte», ci diceva un anno fa, poco dopo aver festeggiato l' ottantesimo compleanno. Era una filosofia, abbinata alla passione per i fondamentali, che ha permeato una stagione importante della nazionale: portò a due bronzi europei (' 71 e ' 75) e ai primi, storici, successi sugli Usa (Mondiali ' 70) e sull' Urss (Europei ' 77). Ma in un basket che stava ormai evolvendo verso lo spettacolo, quel concetto si sarebbe rivelato pure un limite. Sarebbe servito coniugare il «primismo» con un gioco più votato all' attacco: non avvenne e così la sua avventura azzurra si concluse, per lasciare spazio al primo dei due cicli di Sandro Gamba. Ma non si esaurì la storia di Primo allenatore. Anzi, avrebbe vissuto due momenti d' oro, alla guida di Cantù: la conquista prima della Coppa dei Campioni, nel 1983 a Grenoble sul Billy di Peterson, e poi della Coppa Intercontinentale. In quelle circostanze, il professore non si tolse alcun sassolino dalle scarpe, non era nel suo stile: «Ma ebbi la soddisfazione - raccontava - di ricevere una stretta di mano e i complimenti da un vostro collega che mi criticava sempre e comunque. Fu un gesto onesto». Nato e cresciuto in una pallacanestro che ancora aveva il sapore della palla-al-cesto («Ci allenavamo su un campo al buio, aspettando, per tirare, che passasse il tram e che illuminasse il canestro con il suo faro»), Primo come giocatore partecipò ai Giochi del ' 48 e agli Europei del ' 47 e del ' 49. Fu poi assistente del professor Paratore in tre Olimpiadi (' 60, ' 64 e ' 68) e cinque Europei, quindi lo rimpiazzò quando una nazionale che non decollava mai ebbe bisogno di una scossa e di volti nuovi. Primo legò il destino dell' Italia a due giocatori, Meneghin e Marzorati, e andò alla guerra contro giganti del basket che si chiamavano Urss e Jugoslavia: «Certo, la mia Italia ha raccolto meno di quanto valesse: ma vi ricordate quanti assi avevano quei due squadroni?». Tuttavia vennero anche le sconfitte dalle varie Bulgaria o Cecoslovacchia, che alimentavano gli anti-primiani. I suoi undici anni in azzurro furono chiusi, nel Mondiale 78, da un tiraccio del brasiliano Marcel da oltre metà campo: il bronzo già in tasca fu sfilato a fil di sirena e resta ancora viva l' immagine tv di Aldo Giordani, impietrito dalla delusione, mentre intervista il c.t. «Però non è quella medaglia persa la cosa che mi manca di più: mi manca lo scudetto». E poi, sussurrando, aggiunse teneramente: «Anzi no, mi manca tanto mia moglie». La solitudine era il vero avversario contro il quale non funzionavano nemmeno le sue proverbiali difese.