Maurizio Carrara, su passato e futuro del basket italiano e pistoiese

Maurizio Carrara, su passato e futuro del basket italiano e pistoiese

Alla vigilia della sfida di Cremona, che Pistoia affronta da capolista solitaria, incontriamo Maurizio Carrara, membro di una famiglia che ha scritto pagine indelebili nella storia del basket cittadino. A Maurizio, figlio di quel Mario Carrara a cui il palazzetto di Sant’Agostino da quattro anni è intitolato, chiediamo per cominciare quanto sarebbe stato felice suo padre di vedere oggi Pistoia in vetta alla classifica della serie A…

“Sarebbe stato felicissimo: mio padre era un uomo che amava le sfide, oltre al basket. Nonostante le tante soddisfazione di quegli anni, Pistoia non arrivò mai a essere capolista. Certo, era una serie A diversa e la realtà pistoiese era già una realtà importante: una squadra che centrava i playoff e disputava le Coppe Europee, lottando ai massimi livelli, ma il primo posto in solitaria dopo sette giornate, beh, è un’emozione particolare…”

Dicevamo del grande legame che ha sempre unito il basket pistoiese e la famiglia Carrara: un legame che oggi vede coinvolti tanti altri attori. Cosa è cambiato a Pistoia in generale, e nella pallacanestro in particolare, rispetto ai tempi della Kleenex? “E’ profondamente cambiato il basket: in quegli anni le squadre avevano un presidente che era il responsabile unico dell'andamento economico e sportivo, a Pesaro con Scavolini, a Treviso con Benetton, a Roma con Gardini. Adesso le cose sono diverse, e credo di poter dire che sono sostanzialmente cambiate in meglio: sono pochi i presidenti unici, in tutte le piazze c'è un consiglio, un pool più o meno ampio di imprenditori. Il rammarico che ho è questo: parliamo di uno sport bellissimo, che potrebbe avere un aiuto maggiore da parte dei media, delle tv ma non solo, e dalla Lega stessa”.

Da grande appassionato di basket, da tifoso e da addetto ai lavori, ti aspettavi sinceramente che dopo la chiusura di un ciclo lungo e vincente com’è stato quello di Paolo Moretti, Pistoia riuscisse a vivere un inizio di stagione così incredibile o questo primo posto in classifica stupisce anche uno come te? “Sfido chiunque ad averlo immaginato così il dopo Moretti. Paolo ha dato molto a Pistoia, il nuovo ciclo porta la sua firma, e personalmente lo ritengo un grande allenatore oltre che una grande persona. L'ipotesi Esposito devo dire mi ha incuriosito fin da subito: conoscevo "El Diablo" dai tempi dell’Olimpia, lo ricordavo per i valori umani oltre che tecnici. Avevo molta fiducia, ma non era nelle mie aspettative essere primi dopo sette giornate, ma questo significa che a Pistoia c'è un humus, a livello ambientale, che fa lavorare in maniere tranquilla, ordinata e serena chiunque venga qua”.

Cosa pensi manchi ancora per fare il salto di qualità definitivo? Pistoia ormai si trova in serie A da tre anni, ha dominato gli ultimi due anni della Legadue, eppure, nelle intenzioni della società questo doveva essere una sorta di anno zero, un’ennesima ripartenza… “Credo che il salto di qualità sia stato già fatto. L'obiettivo nostro è lottare per la salvezza, ma sicuramente siamo una realtà che in questo campionato ci sa stare e ci può stare per molto tempo. Chiaramente per garantire un futuro solido e di successo, la società ha bisogno di risorse economiche: il campionato è dispendioso e noi stiamo facendo miracoli con uno dei budget più bassi della categoria. Credo che ci sia bisogno di più imprenditori che sostengono il nostro progetto, molto semplicemente. La società sta lavorando bene e l'entusiasmo che c'è in città adesso ci può aiutare ad avvicinare ancora più persone al basket”.

Allargando gli orizzonti, rispetto al basket degli anni Novanta tante cose, almeno in Italia sono cambiate: nostalgia di quel periodo? “Ogni cosa va vissuta nell'orizzonte temporale in cui avviene: il basket degli anni Novanta era spettacolare, forse anche più tecnico, un basket in cui gli italiani avevano un ruolo centrale, mentre adesso ci sono squadre che giocano quasi esclusivamente con giocatori stranieri. E’ un basket diverso, che mi piace, che è diventato così per limitare i costi, però non vedo grossissime differenze: c'è la stessa voglia di vincere, c'è lo stesso entusiasmo. L'unica cosa che è veramente cambiata, purtroppo, è che negli anni Novanta la pallacanestro era veramente il secondo sport nazionale, aveva le luci dei riflettori puntate addosso, non solo la domenica. Oggi non è più così, diciamocelo, ed è un peccato”.