La prima volta che ho visto giocare Bob McAdoo non l'ho più dimenticata

La prima volta che ho visto giocare Bob McAdoo non l'ho più dimenticata

(di Francesco Rivano). Lo so, non è prassi di uno scrittore chiedere a un lettore di sfogliare velocemente l’articolo che sta leggendo per andare direttamente alla biografia dell’autore. Però io ve lo chiedo, solo per farvi capire da quando io ho iniziato ad interessarmi realmente al basket e di come quindi, il racconto che sto per scrivere non derivi dall’esplosione della mia passione per tutto ciò che riguarda la palla a spicchi, ma abbia radici ben più profonde.

Se c’è una persona che mi ha insegnato qualcosa a questo mondo quella è mio padre. Non ci scambieremo mai un “ti voglio bene” perché riteniamo che le cose ovvie non abbiano bisogno di essere comunicate, sono lì alla portata di tutti. Mi ha insegnato i valori fondamentali con i quali affrontare la vita e mi ha trasferito geneticamente una passione per lo sport, qualsiasi tipo di sport, fuori dal comune. Quante partite di calcio viste fianco a fianco nelle fredde domeniche invernali; quante tappe del Tour de France durante le quali il giallo splendente della maglia del leader rievocava il sole cocente dei pomeriggi di Luglio; quanti duelli infiniti a Wimbledon su quell’erba che, via via, si diradava fino a scomparire nel tragitto percorso durante le innumerevoli discese a rete degli artisti del serve & volley. Tanto, tantissimo sport, ma il Basket no, non lo abbiamo mai condiviso. Chissà perché; eppure ho un ricordo nitido di lui che, in quel giovedì sera, giorno del suo 42esimo compleanno, guardava alla TV la sfida sotto canestro tra una squadra in maglia rossa e una in maglia gialla. “Che guardi papà?” “Niente, solo una partita di basket.” Fu quel “solo” ad incuriosirmi. Per mio padre un evento sportivo non era mai stato “solo” un evento sportivo. Forse voleva dissuadermi, magari lo ha fatto per proteggermi da una dipendenza, quella dal basket, sfociata molto più avanti, ma non ci riuscì e mi fermai giusto in tempo per capire. Nei giorni successivi le immagini raccontate dall’allora cronista Rai tornavano ricorrenti alla memoria e spesso mi ritrovavo ad imitare le gesta dei giganti visti in TV. Dopo i compiti, nella mia cameretta, cercando di infilare una pallina da tennis nel piccolo spazio che lasciavo in alto tra la porta e il muro, la mia voce stridula imitava quella di Gianni Decleva. Ricordavo la fisionomia di molti giocatori, ma in mente avevo un solo nome: “il numero 11 dei rossi cattura il rimbalzo e la passa al signore con i baffi che serve il compagno; tiro e ancora canestro di Mecadù”. Non potevo immaginare a 7 anni che quel colosso di colore, con la 15 sulle spalle, fosse stato MVP della NBA, avesse vinto due anelli e disputato 4 Finali, anche perché, se realmente siete già andati in fondo all’articolo, sino all’età di vent’anni non sapevo cosa fosse un MVP e nulla sapevo della NBA.

Se nasci a Greensboro, nel North Carolina, e nel momento in cui viene elargito il talento per lo sport del professor Naismith ti fai trovare in prima fila, ti basta veramente poco per percorrere la strada spianata verso il successo cestistico. Ma evidentemente essere pigro nell’unica fatica nella quale mamma Vandalia, da buona insegnante quale era, pretendeva che eccellessi, non è stato per nulla utile. Bene alla high school per carità, ma se al momento di prendere la strada del college e con uno dei migliori atenei della Nazione pronto ad accoglierti a poche centinaia di metri da casa, i risultati dei test accademici ti voltano le spalle, beh, l’università di North Carolina diventa un puntino lontano sullo sfondo mentre imbocchi la strada che ti porta nell’Indiana e più precisamente a Vincennes. Questo è il primo contatto fra il basket di livello e Bob McAdoo. All’Università di Vincennes Bob fa quello che gli riesce meglio e cioè fare canestro. E dove lo avevano mai visto uno così forte da quelle parti? Dal 1969 al 1971 è in doppia doppia di media costante tanto da meritarsi la convocazione di Team USA per i giochi Panamericani del ’71. Ma mamma Vandalia non ci sta. Non vuole vedere il talento del figlio confinato in un ateneo minore, vuole vederlo scalare l’Everest del gioco e con il coraggio che contraddistingue una madre che ha a cuore il futuro di un figlio, abbranca il telefono, tira un enorme sospiro e : “Salve Coach, che ne direbbe di dare uno sguardo a mio figlio? Sa molti atenei si stanno interessando a lui, ma lui è nato e cresciuto a Greensboro”. “Why not!” è la risposta lapidaria di Dean Smith. Bob fa le valigie e, dall’Indiana, torna a casa. L’aria di casa lo fa star bene. Con la maglia dei Tar Heels, Bob viaggia a quasi 20 e 10 di media arrivando fino alle Final Four del ’72, ma evidentemente il destino non era favorevole fin dal principio. Il matrimonio tra Bob e l’Università del North Carolina non regge più di una stagione. A creare la frattura ci pensano le difficoltà economiche che attanagliano la famiglia McAdoo che costringono Bob, con la benedizione Coach Smith e le imprecazioni di mamma Vandalia, a rendersi eleggibile al Draft NBA. Servono soldi. A selezionare Bob, dopo non poche polemiche scaturite da un eventuale contatto che il ragazzo avrebbe avuto con i Virginina Squires, all’epoca militanti nella ABA, ci pensano i Buffalo Braves. Scusate il piccolo excursus, ma vorrei far notare che Portland preferì selezionare, con la prima scelta assoluta, LaRue Martin lasciando sul piatto parecchia merce migliore; un vizietto che Portland non perderà né nel draft del 1984 né tantomeno in quello del 2007 facendo felici in particolar modo le città di Chicago e di Seattle. Ma torniamo a noi. Bob a Buffalo si ritaglia un posto di rilievo: Rookie of the year nel 1973 e già al secondo anno riesce nell’impresa di chiudere la stagione con 30 punti di media e 15 rimbalzi, statistiche non esattamente ripetute da molti nel corso degli anni all’interno della Lega. Il vero capolavoro però è la stagione successiva che vede il figlio di Vandalia essere consacrato come MVP della Lega. E pensare che quei Buffalo Braves sono gli attuali Los Angeles Clippers, quindi non proprio la franchigia più fortunata della Lega in termini di risultati sia individuali che di gruppo. Ma i risultati di squadra tardano ad arrivare e Bob si stufa, decide di cambiare aria. Passa per la Grande Mela, gira fra Boston, Detroit e il New Jersey, senza mai arrivare ai livelli raggiunti con i Braves. Finché il Natale del 1981 gli porta in dono la casacca giallo-viola da condividere con Magic, Kareem e compagnia. È con i Lakers che Bob completa il suo palmares a stelle strisce e dopo i riconoscimenti individuali ottenuti a Buffalo, nella città degli angeli si fregia di 2 anelli e 4 Finals disputate. Certo, il tutto da comprimario, ma a Bob questo poco importa. La vita cestistica di Bob sembra ormai giunta al capolinea, firma per i Sixers nel 1986 e gioca a fianco di Moses Malone, Charles Barkley e il Doctor J, ma non è più il Bob di inizio carriera. Forse è ora di smettere, o forse è solo ora di cambiare aria e perché no, continente. E Vandalia vede Bob imbarcarsi per un volo transatlantico. L’avventura di Bob alle nostre latitudine è indimenticabile per lui e per le migliaia di tifosi dell’Olimpia Milano. Vince due Campionati italiani, una Coppa Italia, una Coppa Intercontinentale e due Coppe dei Campioni, una contro il Maccabi Tel Aviv proprio quel 02 Aprile del 1987 durante la quale, non conoscendo ne l’una ne l’altra squadra, mi accontentavo di distinguere le squadre in un puerile “gialli contro rossi”.

Ecco chi era quel “Mecadù”, quel colosso di colore con la 15 sulle spalle. Mi ci sono voluti anni per chiudere il cerchio aperto nel lontano Aprile del 1987. Ho dovuto sentire pronunciare il suo nome durante le partite degli Heat, per i quali ha rivestito il ruolo di assistant coach, per chiedermi veramente se, quell’uomo in giacca e cravatta capace di farsi ascoltare da campioni del calibro di Shaq, Wade, LeBron e Ray Allen, fosse quel ragazzo che, per la prima volta, mi spinse a provare a giocare a Basket, anche se solo con una pallina da tennis in mano e una porta leggermente scostata dal muro della mia cameretta.

Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell'Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell'amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall'amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: "Ricordi al canestro" legato alla storia del Basket. E da pochi giorni ha pubblicato la sua seconda, dal titolo "La via di fuga" Link per l'acquisto del libro.